Incontri con la musica – 2024

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Incontri con la musica – 2024

2024: tre incontri per il Centenario Pucciniano

La Bohème è un’opera in quattro quadri di Giacomo Puccini, su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica. Ispirato al romanzo di Henri Murger “Scene della vita di Bohème”, il libretto ebbe una gestazione abbastanza laboriosa, per la difficoltà di adattare le situazioni e i personaggi del testo originario ai rigidi schemi e all’intelaiatura di un’opera musicale. L’orchestrazione della partitura procedette invece speditamente e fu completata una sera di fine novembre del 1895. Meno di due mesi dopo, il 1º febbraio 1896, La Bohème fu rappresentata per la prima volta al Teatro Regio di Torino, diretta dal ventinovenne maestro Arturo Toscanini, con buon successo di pubblico, mentre la critica ufficiale, dimostratasi all’inizio piuttosto ostile, dovette presto allinearsi ai generali consensi. L’opera ha la stessa fonte e lo stesso titolo dell’omonimo spettacolo di Ruggero Leoncavallo, con cui al tempo Puccini ingaggiò una sfida. L’esistenza spensierata di un gruppo di giovani artisti bohémien costituisce lo sfondo dei diversi episodi in cui si snoda la vicenda dell’opera, ambientata nella Parigi del 1830. La bohéme narra principalmente le vicende sentimentali di due giovani coppie, Rodolfo e Mimì e Marcello e Musetta. È la parabola di una giovinezza creativa e spensierata ma vissuta in mezzo alla povertà e alla malattia, tanto che Mimì alla fine morirà di tisi nell’umida e fredda soffitta di Rodolfo e Marcello. Nessun “soggetto” quanto quello di Bohème era stato più vissuto da Puccini. La vita da bohemien Puccini l’aveva vissuta davvero al conservatorio Giuseppe Verdi di Milano, e se non aveva conosciuto proprio la fame, aveva sperimentato tuttavia quelle sfumature dell’appetito lungamente trascurate che danno allo stomaco un languore che è sentimentale solamente per i poeti. La “Bohème”, quella vera, dunque, era passata attraverso la giovinezza del Lucchese prima che potesse ridere e piangere sulla sua fortunatissima opera

 

È un’opera per molti versi anomala, all’interno della carriera di Giacomo Puccini, “La fanciulla del West”: fu composta dopo che al maestro, durante un tour statunitense nel 1907, accadde di assistere al dramma di David Belasco “The Girl of the Golden West”, che lo entusiasmò. Puccini incaricò il poeta Carlo Zangarini (cui subentrò in un secondo tempo lo scrittore toscano Guelfo Civinini) di preparare il libretto. “La fanciulla del West” fu rappresentata per la prima volta al Teatro Metropolitan di New York il 10 dicembre 1910, diretta da Arturo Toscanini con il grande soprano boemo Emmy Destinn, il famosissimo tenore Enrico Caruso e l’altrettanto celebre baritono Pasquale Amato. Enorme e immediato il successo. La scena è ambientata in California ai tempi della febbre dell’oro e ha come protagonista Minnie, tenutaria della “Polka”, il saloon frequentato dai minatori. Questi venerano la donna, affidandosi completamente a lei, consegnandole persino i propri risparmi, mentre tutt’attorno si aggira depredando e taglieggiando una banda di briganti comandata dal temibile Ramirez. Minnie si innamora del bandito messicano, odiato dallo sceriffo Jack Rance, che invece da tempo corteggia senza successo la donna. Ma lei si fida di Ramirez e lo invita nella sua capanna. E qui sboccerà l’amore. Tuttavia, solo attraverso una partita a poker la ragazza del saloon salverà la vita del bandito da una sicura impiccagione. Dopo ulteriori peripezie i due insieme potranno lasciare la California verso il loro futuro, ignoto ma pieno di speranza. Giacomo Puccini non si affida questa volta alla cantabilità di arie famose (se si eccettua l’arioso del tenore nel terzo atto), ma si inventa sempre un’orchestrazione raffinatissima: di enorme suggestione sono le atmosfere che Puccini crea durante la famosa partita a poker del secondo atto e poi, nel terzo, con la cattura di Ramirez, oltre al celebre tema d’amore tra i due protagonisti.

 

Turandot, una favola tragica, disseminata di principi morti per volere della bellissima e solitaria principessa, figlia dell’imperatore di una Cina di fantasia. Turandot è un’opera “incompiuta” perché il Maestro Giacomo Puccini morì nel novembre del 1924, colpito da un tumore alla gola. Lasciò 23 foglietti di appunti sul possibile finale. Si cimentarono nella possibile ricostruzione il compositore napoletano, Franco Alfano, che negli anni Venti scrisse due finali, e Luciano Berio nel 2001. Ma il vero finale è proprio quello che non c’è. Resta il mistero su ciò che Puccini pensava per la sua Turandot: forse l’opera rimase incompiuta non a causa dell’inesorabile progredire del male che affliggeva l’autore, bensì per l’incapacità, o piuttosto l’intima impossibilità da parte di Puccini di interpretare quel trionfo d’amore conclusivo, che pure l’aveva inizialmente acceso d’entusiasmo e spinto verso questo soggetto. Troppo atroce era stata infatti poco prima della scena conclusiva la morte di Liù, piccola e grandiosa figura di schiava, che si sacrifica per favorire il trionfo del suo amato Principe Ignoto e il di lui sposalizio con la gelida principessa. Liù nell’originale di Carlo Gozzi non esisteva: è un personaggio che Puccini impose ai suoi librettisti con una geniale intuizione, che poi si rivelò del tutto vincente

 

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